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Lettera a Francesco Totti da un romanista siciliano

Carissimo Francesco,

sono un ex ragazzo, nato come te alla fine degli anni ’70. Romanista da sempre, in una terra in cui i bambini tifano quasi esclusivamente per Juve, Milan e Inter.

Ho cominciato ad amare questi colori ai tempi di Falcao, Pruzzo, Nela e Bruno Conti. Una delle prime partite che ricordo è l’epica vittoria per 3-0 nella semifinale di Coppa dei Campioni contro il Dundee United. Purtroppo ricordo anche la finale persa ai rigori contro il Liverpool: fu la prima volta che piansi per una partita e per giorni andai dicendo in giro che in realtà la Roma alla fine era riuscita a vincere e che erano quelli che sostenevano il contrario ad essere male informati.

Ho pianto anche per lo scudetto perso contro il Lecce, cui seguirono anni di campionati anonimi mentre Napoli e Milan si spartivano coppe e scudetti. Sì, c’erano Giannini e Voeller che ogni tanto ci regalavano qualche gioia, ma avevo sempre l’impressione che per tornare a vincere lo scudetto (e riscattarmi agli occhi degli amici che tifavano per le altre squadre) servisse un nuovo profeta, un po’ com’era stato Falcao all’inizio degli anni ’80.

Il giorno del tuo esordio a Brescia ero in gita con la scuola: frequentavo il primo anno del Liceo Scientifico e avevo appena cominciato a familiarizzare con i miei nuovi compagni. Non sapevo ancora che sarebbero diventati gli amici di una vita intera. E non potevo immaginare che l’ingresso di un promettente prodotto del vivaio in un match apparentemente anonimo in una tra le peggiori stagioni giallorosse potesse essere così importante per il resto della mia vita. C’è voluto poco per innamorarmi calcisticamente di te: le prime apparizioni da titolare o subentrato con Carletto Mazzone sembravano lasciar presagire qualcosa di importante. L’annata con Carlos Bianchi mi fece temere che potessi essere l’ennesimo talento della nostra primavera che finiva per perdersi per strada. Poi è arrivato Zeman: tutti a pensare che avresti giocato poco, ingabbiato dalla rigidità degli schemi dell’allenatore boemo. E invece fu proprio in quel periodo che sei diventato, nel giro di poche settimane, il miglior giocatore italiano. Capace di essere decisivo e continuo come pochi altri: goleador, assist man, regista offensivo. Tutto passava da te. E le combinazioni sulla catena di sinistra con Candela e Di Francesco erano diventate un meccanismo perfetto, che era una gioia ammirare di domenica in domenica. Solo l’ottusità di Cesare Maldini ti impedì di partecipare ai Mondiali del ’98 quando già era chiaro che tipo di carriera avresti fatto. Due anni dopo arrivarono gli Europei del “cucchiaio” a Van der Sar e della finale persa con la Francia, in cui fosti comunque uno dei migliori in campo.

Il passaggio della gestione tecnica da Zeman a Capello trasformò una squadra brillante ma incompiuta in una squadra vincente, capace di catalizzare l’attenzione di alcuni tra i migliori giocatori di quel periodo: da Cafu a Batistuta, passando per Montella, Samuel ed Emerson. Arrivò lo scudetto, con il tuo gol decisivo contro il Parma in un finale di stagione che era diventato più complicato del previsto. Ero nella mia Marsala quel 17 giugno del 2001: non seppi resistere alla gioia e, in piena solitudine, cominciai a scorazzare per la città con la Panda di mia madre armato di una sciarpa celebrativa e di tanta sana follia. Un’ora a girare per le vie di Marsala suonando il clacson senza soluzione di continuità sotto i balconi dei miei amici juventini, interisti e milanisti, tra gli sguardi interrogativi dei passanti che probabilmente mi giudicarono un po’ svitato.

Quella squadra così forte, a cui si aggiunse il talento anarchico di Cassano avrebbe potuto vincere molto altro. Ma nonostante te, Capello e tanti campioni, qualcosa mancò e fu un vero peccato. Così come fu un peccato che il sodalizio con Cassano, potenzialmente uno dei più straordinari del calcio moderno, si sia dissolto prima del previsto. Probabilmente avremmo vinto tanto altro e il “matto” di Bari Vecchia avrebbe avuto una carriera diversa. Sicuramente, ci saremmo divertiti molto di più.

Il resto è storia tutto sommato recente: gli infortuni, i Mondiali, la Scarpa d’Oro, la trasformazione da trequartista in “falso nueve” e il lento declino in cui sei riuscito comunque a regalarci altre grandi dimostrazioni di classe, coraggio e determinazione, continuando a prendere in mano la squadra nei momenti difficili e a rendere temibile e credibile una maglia che mai come in questi 25 anni ha inanellato una serie straordinaria di piazzamenti tra le grandi del calcio italiano ed europeo, trasformando l’Olimpico in un fortino spesso inespugnabile e andando a regalare prestazioni spettacolari a Milano, Torino, Barcellona, Madrid, Lione.

Spesso in questi anni ti è stato rimproverato di esserti comportato da provinciale scegliendo di restare a Roma quando saresti potuto andare a Milano o a Madrid, vincendo molti altri titoli e, probabilmente, il Pallone d’Oro. A me è sempre sembrata una grande dimostrazione di amore e generosità verso i colori che ami. Hai coltivato fino alla fine l’utopia di vincere a Roma quello che avresti potuto vincere altrove, mettendo tutto te stesso a disposizione di questo sogno. Un po’ come fanno tanti giovani che hanno deciso di restare al Sud, nonostante il clientelismo e la mafia, perchè animati dalla voglia di cambiare i destini della propria terra. E ogni volta che ci vien voglia di mollare tutto e andare a vincere i nostri piccoli trofei altrove, pensiamo un po’ anche a te, e alla bellezza di immaginare di poter realizzare qui quello che con maggiore rapidità viene ottenuto da altri nostri coetanei al Nord o all’estero.

Voglio dedicare questa lettera a tutti voi, ai bambini di ieri che sono cresciuti e magari sono diventati padri e a quelli di oggi che gridano TOTTI GOL“, hai detto durante il commovente commiato dal calcio giocato, davanti a 70 mila tifosi in lacrime. E in quel momento ho sentito questa dedica come un abbraccio al ragazzino che sono stato quando hai cominciato a giocare e a quello che sono ancora ogni volta che accendo la tv per vedere una partita della Roma. Un ragazzino che adesso guarda le partite con un bimbo di un anno tra le braccia, che magicamente si incanta davanti allo schermo quando vede 11 maglie giallorosse correre su un rettangolo verde. Quel ragazzino che purtroppo non ti ha mai visto giocare dal vivo perchè quella volta che arrivai al “Dall’Ara” per assistere a un Bologna-Roma nell’anno dello scudetto mi dovetti accontentare di Hidetoshi Nakata perchè tu ti eri improvvisamente infortunato.

Quel pallone che hai buttato sugli spalti, è come se lo avesse calciato assieme a te un’intera generazione di ex bambini nati tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, che per tanto tempo si sono illusi di poter rinviare a data da destinarsi l’appuntamento con il mondo adulto per godere all’infinito delle proprie passioni.

Sappiamo bene, come lo sai tu, che nulla sarà più come prima. E che toccherà ad altri respirare a pieni polmoni l’odore di quell’erba da cui mai avresti voluto separarti, coltivare sogni traboccanti di innocenza e ingenuità.

Per la nostra generazione è arrivato il tempo di accantonare i pantaloni corti per mettere quelli lunghi. Eppure sono certo che ogni volta che potremo, riusciremo a riappropriarci del nostro settimanale ritorno all’infanzia senza togliere nulla ai nostri doveri e alle nostre responsabilità.

Nella convinzione che solo il giorno in cui dimenticheremo di essere stati bambini non avremo più nulla da dire o da dare a questo mondo.

P.S.: Questo post è dedicato ad Alessandro, Dario, Ernesto, Francesco, Giancarlo e Valerio. Nessuno di loro è romanista, ma sono certo che capiranno il senso di questa dedica.

Vincenzo Figlioli

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Tags: Francesco Totti