Categorie: CulturaLibri

Il concerto “La Terra dei Ciclopi”. Un’alleanza di blocchi artistici – Teatro “Garibaldi” (Mazara del Vallo, 3 Gennaio ’16)

Nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè

Rino Marino, Carcere

La Terra dei Ciclopi”. Un campo di forze artistiche in cui si intrecciano la musica, la fotografia artistica, la video-arte, la poesia e la recita attoriale. Un concerto. Un concerto come modalità espressiva che consente alla “terra” dei Ciclopi – una quasi-ripresa ciclica del pensiero di G. B. Vico sui primi abitatori della terra come “bestioni” dell’indistinto (un sentire-pensare cioè che non separa le due sfere; ciò che non pensa, infatti, abita il pensare anche quando le linee sembrano spezzarsi) – di esprimersi nelle varie forme territorializzanti e deterritorializzanti delle attività estetiche trascinate dalla musica del piano-jazz di Sade Mangiaracina (pianista e compositrice).

La Terra dei Ciclopi”. Una modalità di pensiero musicale che dispiega l’insieme senso-estetico che lo abita prima ancora che le sue astrazioni e stazioni simboliche prendano il volo per farsi immagini in movimento e ri-tornello oscillante – “‘nnavanti e ‘nnarrè” – di ritmi che fanno e disfano le trame fino alla follia o al silenzio dello zero dell’indistinto ma bollente, come la terra polifonica dell’Etna. Un bollire di immagini di folle e di bolle in superficie – «Folle, folle, folle / galleggio / nell’acqua molle molle, / volteggio / in un brodo di / bolle / e di balle / che bolle, ribolle / e apre falle» (Rino Marino, La follia di Archimede) – fra i sussulti tellurici della natura e della materialità degli eventi storici e temporalizzati; eventi che si esprimono in un comune concerto eterogeneo di suoni, immagini, parole scritte e oralizzate, soffi e respiri che si fanno variazioni vocali di un pensiero bocca a bocca con una tromba. In tutto questo operare frattalizzato di immagini dell’estetico-artistico de “La terra dei Ciclopi sembra esserci, si può dire, la polifonia e l’estesia sperimentale dell’arte e delle arti deleuzeniamente intese come un faire image. Un fare immagine che è proprio di ogni arte e artista: musica, scrittura, pittura, teatro, cinema etc.

Così c’è la terra: «E’ la terra, la terra, la terra / dei ciclopi» (La terra dei Ciclopi è il titolo del disco di Sade Mangiaracina. I testi poetici di Marino, qui citati, si ispirano ad alcuni brani musicali del disco della stessa Sade e ne riportano lo stesso titolo.); è l’in-determinazione della “terra” che ha richiamato il pensiero artistico degli attori in pista a ri-comporre, intrecciandole, le forze del campo con la molteplicità delle variazioni eterogenee dei linguaggi e messi all’opera come uno sciame o uno stormo in volo di forme danzanti linee di fuga e mutazione di mutazioni in scena. L’indeterminabile della terra chesi à fatto il concerto plurale e simbiotico, l’intrecciato che miscela e diviene “blocchi” artistici diversi.

La presentazione di questo intreccio, che si è fatto incrocio, miscela o simbiosi di blocchi senso-estetici e pensare-agire tra le arti come artigli di sezione e dissezione schizomorfa (metamorfosi continua di elementi comunicanti in un vaso come biforcazioni di armonie caotiche), alludendo a un divenire-presenza di “blocchi di percetti e affetti” (G. Deleuze/ F. Guattari), si è fatta gustare in tutta l’ampiezza del suo coinvolgimento contagioso sul palcoscenico del “Garibaldi” (Mazara del Vallo, 3 Gennaio 2016). Il teatro “Garibaldi” che, già da tempo, è stato ripristinato nella sua architettura d’origine e ridato alla vita della Città.

La complessa operazione artistica così, pare, si è presentata come una composizione che ha esposto l’occhio ad ascoltare e l’udito a vedere l’intreccio artistico degli elementi in campo come una storia (individuale e collettiva) di uomini e donne in una terra, quella siciliana, in cui i passaggi migratori, ibridi e nomadi, in una con il paesaggio della “terra”, ne hanno segnato in maniera inconfondibile sia le forme di vita sia il disfarsi, quanto il loro stesso ripetersi differenziale.

Passaggi di storia e di vita che fra contrazioni e dilatazioni, accelerazioni e rallentamenti, gradazioni e salti, onde lunghe e guizzi, ripetendo la differenza e le dissolvenze di senso del campo d’onde oscillatorie, simultaneamente hanno transitato i sensi e le intensità tonali o meno delle voci esplosive (fuori) e implosive (dentro) nei modi espressivi propri di ciascuna arte chiamata a concerto. Un concerto, come detta il poeta, sulu “pi’ tia”: «A passu lentu, comu la ciumara. / Pi’ tia, pi’ tia / ch’ha spinguli e merletti a li finestri / e aspetti un trenu persu ad ogni festa. //…// Pi’ tia, pi’ tia, sulu pi’ tia /…/ un rusariu ch’è un luttu ad ogni posta» (Rino Marino, Sulu Pi’ Tia).

Così non solo la tecnica ma anche il/i linguaggio/i – insieme materiali-immateriali del “sentire” (il sentire che dà da pensare e che è nel pensiero stesso come vita che si ri-flette e si auto-riflette nella propria immanenza), delle idee, delle immagini, degli immaginari e dell’immaginazione – che si fanno habitus di figurazione e defigurazione in movimento; ma un movimento di relazioni dinamiche paradossali e instabili che decontestualizzano mentre contestualizzano:

suoni pulsanti e pulsati (il pianoforte di Sade Mangiaracina) con soffi di respiri articolati e vocativo-consonanti (la plasticità della tromba di Luca Aquino); suoni pulsanti e pulsati (il pianoforte di Sade Mangiaracina) con gli sfumati cromatici in risonanza delle foto bianco-nero, o a figura e sfondo dove però a farsi sono i tratti dell’immateriale – un sorriso, un gesto pensoso, una posizione del viso o del gesto, una inclinazione d’animo variamente connotata etc. –; i tratti ri-tratti (i volti fotografati da Vito Milana) che si distribuiscono sulla superficie del piano-diapositiva oltre il dettato del figurato e si sporgono in mostra dai palchi del teatro in cerca di interlocutori («paradigma dello sguardo» come ha emblematizzato l’estimatore e pittore Peppe Denaro); suoni pulsanti e pulsati (il pianoforte di Sade Mangiaracina) con le proiezioni della video-arte in loop (di Aurelio Curreri); un ininterrotto ripetersi, e fino alla fine della presentazione, come un impermanente andirivieni “‘Nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè” che costruisce, decostruisce, cancella, rifigura e sfigura “‘nnavanti e ‘nnarrè”; suoni pulsanti e pulsati (il pianoforte di Sade Mangiaracina) accelerazioni e decelerazioni insieme con le frequenze di oralità vocalizzanti e vocalizzate (la voce accelerata, rallentata o slittante per gradi dell’attore Fabrizio Ferracane) che, nomadi e ad un tempo, migravano i versi (del poeta Rino Marino) e i ritmi che si movimentavano in immagini spostate e instabili; una ritmicità che riavvolgeva la passione in circolo e che negli stessi testi innestava dei divenire-ri-tornelli poetici, mentre la sintassi grammaticale e semantica degli stessi veniva animata mediante ripetute figure proprie alla retorica poietica (ripetizioni enfatiche di parole/enunciati per intensificarne le espressività paradossali e folli – “squassate alla tempesta”, iperboli, anafore, allitterazioni, assonanze, rime varie…); un vero e proprio gioco di ‘nnavanti e ‘nnarrè come pieghe e s-pieghe di semantizzazione sonorizzata e slittante (la ‘e’, qui, infatti, pare che giochi come connettivo di composizione simultaneamente disgiuntivo di segni eterogenei) per meglio immettere nella rete della molteplicità dei paradossi de “La Terra dei Ciclopi” e sintonizzarli in concerto con il divenire jazz di Sade: «E’ la terra, la terra, la terra // …// La terra del male e del bene //… // È la terra dei ciclopi, / dei leoni e dei topi, / dei lupi, dei pupi, / degli uomini homini lupi // … // E’ la terra, la terra, la terra / dei ciclopi / che abbagliano le fiere / e fulminano gli uccelli in volo, / con quell’occhiaccio, / con quell’occhio solo, / ficcato nel bel mezzo della fronte / acceso come un faro / che scruta l’orizzonte » (Rino Marino, La Terra dei Ciclopi).

Così “La Terra dei Ciclopi” diviene un flusso di immagini molteplici al tempo stesso sonoro e visivo pur nel silenzio eloquente dei volti sporgenti delle foto dei ritratti (di Vito Milana) e dei paesaggi-personaggi proposti dalla video-arte (di Aurelio Curreri). Un gioco di dissolvenze dinamiche di luoghi, paesaggi e visi e loro storia e tempi singolari/collettivi. Visi, mani, parole, suoni, segni, figure in rapporto di figura e sfondo mutazionali dove è percepibile però come una “terza” dimensione; una diagonale che è quella delle linee di fuga vero l’orizzonte delle attese che oscillano tra indeterminazione e determinazione (una complicità di ri-piegamenti come un perdersi per ritrovarsi e ri-partire, ri-venire…). Un posarsi come un processo delle immagini instabili e saltellanti, o una deformazione plastica dell’immagine-video-sonorità dinamica concertistica (un allungarsi e un distendersi o contrarsi e sovrapporsi di visualità e cromatismi varianti fino allo zero… e poi ricominciare, loop).

Un concerto paradossale che ripete la differenza de “La Terra dei Ciclopi” e le sue risonanze che contagiano lo stesso contesto e il pubblico in sala in simbiosi di forze estetiche e sinestetiche simultanee e differenti. Un evento, per usare un pensiero shakespeariano in sintetica parafrasi, plurale “fuori sesto”; un evento che può essere salutato, appunto, una singolarità artistica propriamente Time out of joint. Un fuori almeno per due motivi.

Uno è quello che qualifica l’evento artistico, questo evento, nella sua posizione di “ecceità” propria; una singolarità cioè che, appunto, in quanto evento plurale diviene intreccio di differenze artistiche di un fuori-dentro fluttuante che è la vita di una terra “univoca”, non soggetta. Problematica. Una vita assoggettata a nessun soggetto categoriale sebbene ne senta i sussulti ondulatori nelle morfologie in dissolvenza poetico-cinematografica che si susseguono a ritmo di jazz. Una complessità dinamica di suoni (il pianoforte), di fiati (il trombettista), di ri-tratti sfumati (il fotografo), di immagini metamorfosanti (il video-artista) e di scritture poetiche e voci attualizzanti (il poeta e l’attore recitante) che si afferma come flussi ondulatori di movimenti in quiete: un «‘Nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè» che se-duce gli spettatori-auditori in teatro.

L’altro motivo è quello che – ci sembra – non ha eguali nel mercato della comunicazione dell’immateriale odierno. In questi, infatti, domina lo sguardo del “capitale”, l’occhio del capitale dello scambio mercificato che sussume ogni attività; e in primis quella creativo-cognitiva della produzione contemporanea. Qui, infatti, sono i valori dell’equivalenza-inequivalente o delle dissimmetrie speculative della borsa dei valori di mercato che contano; sì che la visione del “Ciclope” è quella dove un occhio “vale un capitale” (Rino Marino, La terra dei Ciclopi). Nel concerto della comunic-azione de “La Terra dei Ciclopi” la creatività invece diviene l’immunità di una interruzione dissidente (creare è altra cosa dal comunicare, scrive Gilles Deleuze/Felix Guattari); diviene interruttore delle abitudini stereotipate della comunicazione-mercato per i flussi d’onde diversi e l’oscillare ‘nnavanti e ‘nnarrè che carburano comunque i motori materiali-immateriali del tempo “neutro”. C’è infatti un oscillare che, come un formare dell’impersonale (il y a), inter-attiva arti eterogenee in un con-certo singolare-plurale, il concerto di “La Terra dei Ciclopi”. Il “c’è” (il y a) si presenta allora alla rappresentazione come un flusso dei mescolamenti potenziali e nomadi che si concretizzano e si attualizzano in un mutua trans-mutazione liminare. Un taglio che taglia suoni e colori e fiati e voci nel perpetuo movimento in quiete come le onde del mare e il “nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè”. Un intreccio in cui le tracce e gli echi degli elementi specifici di un’arte si metamorfosano fra loro, passandosi di mano in mano la poesia e sfumandosi. Il confine sconfina in un’altra soglia; e lo fa secondo il maintenant della logica fluida della follia dei “corpi” dell’arte e della poesia: «Galleggio, galleggio, galleggio, / galleggio e non affondo / nell’acqua del mondo, // … mi lego nel lago del logo, / … / parabole, iperboli, sorbole che guazzano, guizzano in testa, / si mescolano in tasca, /annega, funesta, / la logica magica/ nell’acqua della vasca » (Rino Marino, La follia di Archimede). Sfumati che si riaggregano per dar forma a un flusso concertistico nomade, l’errare jazzistico dell’opera plurale di Sade Mangiaracina e della sua variazione di variazioni.

L’altro motivo, che vorremmo proporre come chiave di lettura, e non certo per ultimo, è che c’è appunto un esser-ci – il y a – dell’onda polifonica oscillatoria e nomade di «‘Nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè, ‘nnavanti e ‘nnarrè»; l’andirivieni che fa mutare gli elementi di “La Terra dei Ciclopi” per non confinarli in un territorio di identificazione individualizzante e controllabile. Una mutazione polifonica che – sembra – divenire il vero motore degli spostamenti molteplici e spostati, quelli che emergono oltre ogni censura e cesura e che si servono dei soggetti e della soggettività delle arti in gioco per farsi gioco di dadi e scacchi.

(N.B. La foto che accompagna il testo è del fotografo Mirko Tamburello. Da sn, nella foto: Fabrizio Ferracane, Rino Marino, Sade Mangiaracina e Luca Aquino).

Antonino Contiliano

(Marsala, 8-1-’16)

Claudia Marchetti

I commenti sono chiusi.

Condividi
Tags: Antonino ContilianoLa Terra dei Ciclopi