Categorie: Cineautistica: lettere dalla poltroncina

Quando la qualità snobba il cinema

Non ho ancora avviato la mia nuova stagione di visioni cinematografiche, ma la mia attenzione è stata catturata dalla tendenza a riversare risorse e talenti verso le serie televisive. Negli ultimi anni è accaduto sempre più spesso che grandi nomi del cinema si siano dedicati a produzioni seriali di tutto rispetto, che nulla hanno da invidiare alle grandi produzioni cinematografiche. Diciamolo, il format serie TV è vincente! La durata di ogni singolo episodio ti dà libertà, anche se poi la strategia della sospensione degli eventi di fine puntata fa di te un vero “serial addicted”: non si riesce ad interrompere la visione, hai subito bisogno di sapere cosa accadrà nella prossima puntata, cosa si inventeranno per la prossima stagione… insomma sei agganciato e non ne uscirai più! Se a tutto ciò aggiungi qualità, tecnica e sceneggiature impeccabili, ecco che senti che il tuo divano si sta trasformando nella poltroncina della sala cinematografica. Ho sempre seguito le serie TV, serate in cui “sono troppo stanca per guardare un film di 2 ore”, poi magari mi ritrovo a guardare 3 o 4 puntate di seguito di “Breaking bad”… Alla fine quella parvenza di libertà di poter interrompere la visione quando vuoi si rivela l’arma a doppio taglio per cui non ce la fai a smettere. Ma a motivare la dipendenza non è soltanto la mia inclinazione a farmi agganciare combinata con una dose massiccia di curiosità per gli eventi che si susseguono sullo schermo, ma anche un miglioramento esponenziale nella produzione di queste serie che non sono più un intrattenimento spensierato, ma dei veri e propri film, con storie talmente avvincenti, articolate, pieni di intrecci, vicende e personaggi interessanti che necessitano di più di 2 o 3 ore per farsi raccontare. In mezzo alle varie serie (e ce ne sono proprio tante) ci sono delle perle di cui, almeno io, aspetto con ansia le nuove stagioni: “House of cards”, “Homeland” e “Game of thrones” sopra tutte, non è da sottovalutare nemmeno l’italianissima serie “Gomorra”, liberamente ispirata al famoso libro di Roberto Saviano e di cui l’autore stesso è sceneggiatore; come anni fa fu per “Romanzo criminale”, Stefano Sollima conferma di essere un buon regista che ha trovato il suo linguaggio. Ma c’è una serie di cui ho aspettato la stagione successiva non per motivi di dipendenza da “voglio sapere come va a finire”, ma per “ne voglio ancora di serie fatte così”; questa serie è “True detective”, una delle migliori mai prodotte. Ogni stagione si conclude e non ti lascia con il bisogno di sapere ma con quello, ben più difficile da ottenere, di vedere ancora qualcosa con quello standard, con quel linguaggio, con quel modo di raccontare che la rende innovativa nel suo genere. E’ inutile dire che in entrambe le stagioni ad ora prodotte ci sono stati cast d’eccezione che hanno visto attori del calibro di Matthew McConaughey e Woody Harrelson nella prima stagione, Colin Farrell, Rachel McAdams e Vince Vaughn nella seconda. Tuttavia, non sono i nomi altisonanti a decretare il successo di una serie, anche se naturalmente la rendono più famosa e trasmessa. Perché sarebbe una fama a rischio di implosione se non fosse supportata da tutto il resto. Meno famosa, a livello di fruizione domestica, con le stesse caratteristiche di conclusione di ogni stagione di “True detective”, anche se a differenza di quest’ultima conserva i propri protagonisti, è la svedese/danese “Bron/Broen”, che per l’originalità della prima stagione vanta due rifacimenti: l’americano “The bridge” e l’inglese/francese “The tunnel”. Molti hanno seguito il remake americano che ha tra i protagonisti la bravissima Diane Kruger, ma non c’è nulla come l’originale, con la sua atmosfera nordica, la fotografia fredda e una serie di personaggi che nulla hanno a che vedere con gli stereotipi americani a cui siamo abituati.

Daniela Casano

redazione

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Tags: Cinemaserie tv