In fila all’aeroporto, attendo l’imbarco da Pisa per Birgi. Mi giro e vedo un signore di mezza età dall’aria familiare che aiuta una coppia di giovani sposi, alle prese con valigie e bambini. Riconosco nell’uomo in questione Adriano Sofri. In quell’attimo non ho visto né l’editorialista di Repubblica, né il mandante dell’omicidio Calabresi. Ma una persona gentile.
Parto da qui, da un aneddoto personale risalente a un anno fa per parlare di un uomo che non conosco personalmente, ma sulla cui storia mi sono spesso interrogato. A maggior ragione in questi giorni, scanditi dall’ennesimo dibattito sulla sua figura a proposito del suo coinvolgimento in un’iniziativa organizzata dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando. Il chiacchiericcio mediatico aveva ingigantito la vicenda a dismisura, suggerendo la possibilità che Sofri fosse stato nominato consulente del Ministro in materia di carceri. E come al solito l’opinione pubblica si è divisa tra favorevoli e contrari, con la disinvoltura con cui si affetta una mela. A chiudere i giochi è stato lo stesso fondatore di Lotta Continua, che ha poi preferito farsi da parte. Ma guelfi e ghibellini hanno continuato a ciarlare, ostentando le proprie certezze.
A vederla brutalmente, qualsiasi incarico per un condannato per omicidio ha ben poco di condivisibile. E in più, nel caso di Sofri, somiglierebbe alla classica “figurina” che talvolta i politici amano inserire nelle loro squadre più per assecondare determinate logiche di comunicazione che per reale convinzione. Piuttosto, sarebbe saggio puntare su qualcuno dei volontari o dei professionisti che da anni si impegnano lontani dai riflettori per migliorare le condizioni di vita della popolazione carceraria. Tuttavia, piaccia o no, Sofri non è un condannato come altri. Perché, al di là di tutto, resta uno degli intellettuali di riferimento del panorama italiano e perché in un Paese in cui chi fa parte della classe dirigente trova sempre una strada per farla franca, il modo con cui ha scontato la condanna per l’omicidio del commissario Calabresi gli fa comunque onore. Anche perché, la sentenza che lo ha mandato in carcere per un delitto di cui continua a proclamarsi innocente, è arrivata al termine di una vicenda processuale per tanti versi discutibile.
A Sofri, tutt’al più, si potrebbe obiettare qualcos’altro. Ritengo infatti che il fondatore di Lotta Continua non abbia mai voluto raccontare tutto quello che sa su una delle stagioni più controverse della storia italiana. Probabilmente per proteggere se stesso. O più probabilmente per tutelare qualcun altro, magari un amico. In qualche modo lo ha già fatto con Mauro Rostagno, venendo a seguire a Trapani gran parte delle udienze che hanno caratterizzato il processo conclusosi lo scorso anno con le condanne di Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Si è stretto intorno alla sua memoria e alla sua famiglia, portando anche tra le pagine dei quotidiani nazionali il racconto di un pezzo di storia del nostro territorio. Una scelta che forse spiega Sofri molto più di tanti articoli. Come la tenerezza che vidi quel giorno sul suo viso all’aeroporto di Pisa. Tuttavia, da inguaribile amante della verità, mi auguro che prima o poi possa decidersi davvero a raccontare quello che finora ha tenuto per sé. Sarebbe questo, probabilmente, il più grande contributo da offrire alla Storia e alla Giustizia italiana.