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Addio a Robin Williams, l’attore che ci insegnò l’anticonformismo

Ricordo bene l’inizio della mia passione per il cinema. Avevo undici anni e andavo in prima media. La tappa obbligatoria dei nostri sabati pomeriggio invernali era l’unica sala aperta in città in quel periodo, il Golden. Si andava a prescindere dal film proiettato. Si andava e basta. Poteva finire bene e magari ti imbattevi nel primo “Batman” di Tim Burton. O potevi ritrovarti davanti al classico cinepanettone e scoprivi già che non ti faceva ridere per niente. Ma poteva anche succedere qualcosa che non avevi messo in preventivo: uscire dal cinema con una prima (seppur confusa) idea di quello che saresti diventato qualche anno dopo. Esattamente quello che accadde nella mia mente dopo aver visto “L’attimo fuggente”.

Ero arrivato al Golden per rivedere all’opera l’attore che mi aveva fatto divertire tanto in tv con la serie “Mork e Mindy”, senza immaginare che quel film avrebbe segnato una svolta nel mio rapporto con il cinema e un po’ anche con me stesso. Per anni immaginai di essere anch’io uno degli allievi del professor Keating, di poter salire sul mio banco e di urlare “O Capitano, o mio Capitano”, deciso a sfidare il conformismo a prescindere dalle convenienze e a coltivare con maggiore determinazione i miei sogni e le mie passioni, tra cui proprio il cinema. Ed inserendo Robin Williams, naturalmente, in cima alla classifica dei miei attori preferiti. Anche perché scoprii presto che eravamo nati lo stesso giorno, il 21 luglio. E per un adolescente, si sa, certe coincidenze valgono tanto…

Cominciai a vedere e rivedere tutti i suoi film e ad apprezzare le sue maschere comiche quanto quelle malinconiche. Straordinario in “Good Morning Vietnam” quanto in “Risvegli”, in “Mrs Doubtfire” e Patch Adams” quanto in “Jakob il bugiardo” e “Will Hunting”. Col tempo arrivarono altri innamoramenti cinematografici (De Niro, Nicholson, Al Pacino, Kevin Spacey, Mastroianni, Volontè, Servillo), anche perché, di film, il grande Robin cominciava a farne sempre meno. E non tutti mi convincevano. Ma era sempre un piacere rivederlo, anche in “Hook” o “Jumanji”. Perché sapevi che sul registro drammatico era capace di gareggiare con i giganti del grande schermo (De Niro in “Risvegli”, Al Pacino in “Insomnia”), ma che sul registro comico batteva sempre tutti. Ed è proprio qui che risiede la sua grandezza: riuscire ad essere parimenti bravo e credibile nel pianto come nel riso.

Pensavi a lui nella vita e te lo immaginavi come il compagno che tutti vorrebbero avere: seduto al’ultimo banco, pronto a regalare momenti di esilarante comicità alla classe, imitando il preside o il più odiato tra i professori. Ma pensando ai suoi personaggi, c’era sempre un grande senso di malinconia che si accompagnava alla ribellione contro la stupidità del potere e le sue manifestazioni più conservatrici  (in ambito scolastico, politico, medico o militare).

Il senso di una lezione di vita che, contrariamente alla retorica del “Sogno Americano”, poteva passare anche da una sconfitta o da una vittoria mancata. Così come da un sipario che si chiude senza il tradizionale lieto fine.

Vincenzo Figlioli

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