Su un giornale che considero una fonte mediamente attendibile leggo, con il dovuto sbigottimento, che un uomo di 32 anni agli arresti domiciliari per spaccio di stupefacenti sarebbe evaso dal suo appartamento romano, condiviso con una zia e una cugina di non specificato grado, per consegnarsi ai carabinieri con la precisa richiesta di scontare la sua pena in carcere. Da quanto si dice nell’articolo, a spingere l’uomo a una tale sconcertante decisione sarebbero stati i continui litigi con i parenti conviventi: un vero e proprio inferno casalingo rispetto al quale è preferibile il regime coatto – ma evidentemente meno pesante – della vita carceraria. Confesso di aver trovato al tempo stesso ghiotta e grottesca una notizia così curiosa: uno di quei casi tipici per cui la cronaca supera abbondantemente la satira. Di quelle notizie che avrebbero dato lavoro ai buoni e virtuosi corsivisti di una volta, ma che in un mondo in cui l’informazione deve essere giudiziosa e scattante, al massimo, fanno il pieno di emoticon su facebook.
Attraverso una ricerca su Google sono risalito a un precedente simile e non meno esilarante. A scappare di casa sarebbe stato, in questo caso, un uomo di mezza età esasperato da un ménage coniugale insostenibile. L’uomo aveva scontato una parte della pena per furto a Rebibbia, ottenendo successivamente gli arresti domiciliari, dove però ad accoglierlo aveva trovato una moglie petulante che ogni giorno gli rimproverava di non occuparsi abbastanza delle faccende domestiche.
In sostanza, “questa casa non è un penitenziario” potrebbe diventare presto la parafrasi futura per apostrofare il detenuto coabitante che venga meno ai suoi doveri parentali. Quando il focolare domestico si trasforma in rogo, la casistica di chi evade dalla propria abitazione rischia infatti di essere in crescente aumento. Tanto da supporre che i detenuti forzatamente ai domiciliari si riuniscano prima o poi in associazione per sensibilizzare l’opinione pubblica su una questione così poco dibattuta. Lo scenario potrebbe diventare presto tristemente comico, con decine di aspiranti carcerati in fila, potenziali cittadini esemplari costretti a commettere reati attratti dalla prospettiva del carcere, e pronti a bussare alle porte di Rebibbia o di San Vittore, pur di sfuggire alla condanna di una situazione familiare problematica. Tutto sommato in galera c’è più tempo per la meditazione zen e per rileggere le opere del Guicciardini. Ci sono più opportunità per conoscere gente dalla vita avventurosa o trovare compagni con cui giocare d’azzardo senza correre rischi, al posto di millantare amicizie sui social. Ho un vecchio amico borseggiatore che tra una detenzione e l’altra ha persino migliorato il suo inglese per principianti, così da poter scippare in lingua originale le turiste straniere.
Probabilmente non aveva tutti i torti il buon Karl Kraus, quando più di un secolo fa, cinico e sconsolato ci avvertiva: “Il mondo è una prigione dove è preferibile stare in cella di isolamento”. Quella circondariale è pur sempre una casa per definizione, talvolta più accogliente e ospitale di un condominio. E in ogni uomo libero e vigilato, in fondo, c’è un mancato ergastolano che vorrebbe spezzare disperatamente le pesanti catene della sua libertà provvisoria.
Sappiamo tuttavia che le carceri italiane non versano in uno stato di salute eccellente. Forse sarebbe più opportuno e conveniente per tutti – reclusi e galeotti a piede libero – mantenere alta e dignitosa la vivibilità dei nostri penitenziari, dal momento che potrebbe capitare anche al più incensurato degli uomini di cercare un tetto sotto cui ripararsi per fuggire dalle routinarie angherie di una zia dispotica, di una cugina nubile, di un coniuge vessatorio, fanatico delle soap televisive e potenzialmente uxoricida, di un amante infrequentabile nelle ore diurne. O magari per evadere un po’ dalla prigionia della nostra inenarrabile solitudine condivisa.
Francesco Vinci