‘Festival’ è la parola vagamente totemica con cui ormai confezioniamo qualsivoglia evento, e che definisce una specie di parente altolocato della sagra. Negli ultimi tempi abbiamo festivalizzato per approssimazione di tutto: dalla penombra al cibo di strada, dalla poesia sonora al cinema porno, dalla cucina tipica venusiana allo shivaismo tantrico di stile dionisiaco. C’è un festival per ogni cosa e in ogni dove. Eppure in principio era il Festival e il festival era solamente a Sanremo e Sanremo era il festival della canzone italiana.
Per chi appartiene a una generazione ancora analogica, tendenzialmente melomane e teledipendente, il festival di Sanremo è stato prima di tutto una sacra istituzione, capace di riunire in contemplazione mistica davanti all’unico televisore di casa persino le famiglie sull’orlo della cronaca nera: un rito pressoché imprescindibile, puntuale come una festa comandata, fatto di lunghe visioni domestiche e talvolta vessatorie, durante le quali persino la nonna sorda aveva il diritto di improvvisarsi musicologa. Un tempo, però, erano solo canzonette e Sanremo era una ridente località ai piedi di montagne verdi su cui dominava incontrastato l’azzurro più immenso di un cielo più intenso: un pianeta libero da smog e da paure in cui la felicità era un bicchiere di vino con un panino, ma bastava una sola canzone per far confusione. Ritornelli elementari e controversie amorose aleggiavano per una sola serata, accanto a titoli più ‘sperimentali’ come Tulilemble o Tu fai schifo sempre, e animavano allegramente i nostri incubi auditivi per non più di qualche giorno.
Oggi Sanremo non è più Sanremo – secondo la rassicurante tautologia – ma una processione mediatica per stazioni forzate di cui arrivano gli echi pure nella più sperduta isola deserta. Quella sana leggerezza un po’ ingenua e coatta di una volta ha lasciato il palco allo spettacolo totalitario. D’altronde, i buoni sentimenti sono diventati una lente interclassista per leggere l’attualità, e anche le canzoni sanremesi non fanno più parte soltanto di un universo estetico e mitologico a sé stante. E finanche gli esibiti snobismi incrociati e la storica disputa tra chi guarda Sanremo e chi non lo guarda guardandolo sembrano retaggi di un’altra epoca, di quando ancora si poteva contare sulle vecchie care dicotomie, ed esisteva una nozione – sia pure precaria – di cultura ‘alta’. Ma i paradigmi e gli scenari antropologici, si sa, sono in continuo cambiamento. Così, per ogni candido disertore del festival, ci sarà sempre almeno un nuovo sanremologo che nasce nel ceto medio intellettuale.
C’è chi come Fruttero & Lucentini ha persino proposto, qualche anno fa, di far entrare Sanremo nei programmi dell’istruzione superiore. Da nobile kermesse nazionalpopolare e tradizionale strumento di evasione di massa, infatti, il festival si è progressivamente trasformato in un contenitore multidisciplinare, carico di aspettative pedagogiche, di temi obbligati, di piccoli e grandi sermoni. Tanto che il vero radical chic – in un mondo in cui è impossibile sfuggire ai richiami del mainstream e sovrappopolato da opinionisti per tutte le taglie – rischia ormai di essere il commentatore seriale di Sanremo, che guarda a sua volta con malcelata sufficienza chi invece diserta il festival, magari solo perché quella sera c’è un nuovo imperdibile episodio di Don Matteo sul canale adiacente.
La prospettiva si è rovesciata al punto tale che un amico di coltissime frequentazioni musicali mi ha confessato che ogni anno non si perde una serata del festival per non rischiare di essere discriminato sui social, ma poi continua ad ascoltare segretamente i Klavierstücke di Karlheinz Stockhausen. Quasi sempre in cuffia per non insospettire i vicini.
Francesco Vinci