Della storica disputa tra alberisti e presepisti si è già detto la scorsa volta, ma le festività natalizie sono di per sé stesse antica fonte di dissidi interiori e di ispirazioni controverse, oggetto costante di idiosincrasie e di narrazioni dissacranti, non sempre canoniche o consolatorie. Esiste naturalmente una letteratura piuttosto nutrita, anche se poco frequentata nelle aule scolastiche e nei teatri parrocchiali, sul ‘Mal di Natale’. A dispetto infatti della sua universale reputazione di dispensatore istituzionale di buoni sentimenti e di pacificatore per famiglie, il santo Natale continua a essere, tra tutte le feste comandate, una ricorrenza sostanzialmente malinconica e persino ‘divisiva’. La catarsi collettiva con cui siamo invitati a essere proverbialmente più buoni, prima ancora che una retorica più o meno propiziatoria, diventa una inderogabile coercizione. O, superata per quanto possibile l’adolescenza, pura finzione scenica. Conosco tanti onesti serial-killer di specchiata moralità che a Natale si trasformano come per incantesimo in precari e inaffidabili filantropi.
Di contro, in questo periodo dell’anno, accanto ai buoni propositi e alla lista delle strenne natalizie, sul web e sui contenitori generalisti compaiono altrettanti contributi scientifici in cui sociologi e psicoterapeuti elargiscono preziosi consigli su come affrontare i disagi e gli scompensi emotivi del “Christmas Blues”: una vera e propria sindrome depressiva che ci rende irrimediabilmente ansiosi, tristi, stressati, insofferenti e nevrastenici più del solito. Parecchi studi sembrano confermare che durante le festività di Natale si percepisca una sconfinata solitudine e aumenti in tutto il mondo il numero di aspiranti suicidi. Tanto che non mi stupirei affatto se a Babbo Natale venisse prima o poi in mente di farci trovare amorevolmente sotto l’albero tante confezioni di Xanax 0,5 mg.
A Natale la tristezza potenziale diventa per contagio palpabile, clinicamente sintomatica, invasiva, senza tregua: uno stato d’animo che – al di là di tutte le implicazioni per così dire ideologiche – trova forse il suo più disincantato e sublime disquisitore in Giorgio Manganelli. Che al tema ancora tendenzialmente scabroso dell’“infelicità natalizia”, alle sue convenzioni e alle sue mitologie, ha dedicato un intero trattato, scritto quasi in clandestinità: “Quando il Natale si approssima, l’infelicità si scatena su tutta la terra, invade gli interstizi, ci si sveglia al mattino con quel sentimento, discontinuo durante l’anno, che vivere a questo modo pare intollerabile, forse disonesto, una bestemmia. (…) una tetraggine che ha dell’astronomico, come a dire che gli astri sono coinvolti, e forse la tristezza che suppongo mia in realtà è un affetto che tocca gli estremi dell’universo, e oltre, se si dà un oltre. (…) Vien fatto di chiedersi se non basterebbe por fine al Natale per sfuggire a questo elaborato, ingegnoso, maestoso malessere. Ma si sa che al Natale non si dà fuga; in nessun modo”.
Nello stesso anno in cui viene pubblicato, postumo, Il presepio di Manganelli, nelle sale cinematografiche italiane esce Parenti serpenti di Mario Monicelli: probabilmente il più impietoso monumento nazionale contro il Natale come paradigma ‘buonista’. La pantomima domestica, coatta, fatalmente grottesca della ritualità natalizia, con il suo universo familistico di piccole e grandi ipocrisie, è al centro del capolavoro narrativo di Monicelli. Il pranzo di Natale è il momento topico in cui riaffiorano vecchi rancori, insoddisfazioni, malsublimate frustrazioni, e tutte le aspettative tradite pesano come un macigno. Il regalo di Natale smette di essere un feticcio inutile e diventa l’ordigno perfetto dentro cui confezionare l’orrore finale.
Tolto dunque il carattere effusivo e nostalgico dei ricordi infantili, le festività natalizie sono una specie di carnevale rovesciato durante il quale tutto il nostro malessere si smaschera senza nemmeno il conforto e la protezione di una maschera mediatrice. E così ogni anno Natale sembra bussare alle porte con la smorfia altezzosa e beffarda di Cinzia Leone nei panni di Gina, la parente acquisita subdola e un po’ stronza che a ogni componente della famiglia continua macchinalmente a ripetere come un mantra inquietante: “Come stai? Stai bene? Son contenta”.
Francesco Vinci