L’imminenza del Natale ci riporta a uno di quegli antichi e pensosi dilemmi che turbavano i nostri sogni infantili e che ancora oggi farebbero balbettare in scena persino un Amleto alla sua centesima replica: albero o presepe? Anche il più laico degli abitanti dell’Occidente cristiano è infatti costretto, in questo periodo dell’anno, ad affrontare una questione così urgente e fondamentale. Pare che la suddivisione ufficiale tra alberisti e presepisti sia stata teorizzata, con tutti gli esempi del caso, negli anni ‘70 nientemeno che da Luciano De Crescenzo in Così parlò Bellavista: una scelta di campo così importante che – secondo il professor Bellavista – “dovrebbe comparire sui documenti d’identità come il sesso ed il gruppo sanguigno”. E in effetti, alla vigilia delle festività natalizie, alberisti e presepisti di tutti gli orientamenti antropologici fanno la loro annuale comparsa nel dibattito pubblico, si contendono post e foto su facebook, gareggiano platealmente sulla spettacolarità e sugli aspetti pedagogici delle loro creazioni, spesso passate al vaglio di apposite giurie di esperti per stabilire l’albero più fantasmagorico o il presepe più affollato e macchinoso.
C’è chi dice che le due opposte fazioni siano pronte da tempo per fondare ciascuna l’ennesimo movimento politico: i rispettivi simboli, a fissarli con occhi meno sentimentali, rappresenterebbero già un serio e corrivo programma di governo. Eppure, nonostante oggi sia imperativo prendere posizione netta e inequivocabile su tutto, devo confessare che dinanzi alle schermaglie ideologiche che animano l’eterna lotta tra alberisti e presepisti non saprei onestamente per chi parteggiare. Sarei tentato di dire che mi sento più vicino agli alberisti per il loro più o meno ragionato cosmopolitismo. Ma ho l’impressione che con la loro filologica predilezione per gli abeti abbiano poco rispetto per l’ambiente. Dei presepisti militanti, invece, ho sempre trovato alquanto fastidiosa la supponenza con cui si ergono a difensori delle tradizioni cristiane: credono di essere i soli a conoscere il vero significato del Natale e poi magari non sanno nemmeno che il 25 dicembre è il giorno in cui è nato Marco Mengoni.
Il mio qualunquismo in materia di emblemi natalizi ha origini piuttosto lontane: io da bambino, senza sospettare di nulla, sono stato contemporaneamente alberista e presepista convinto. Più che dal Natale in sé, che ho sempre vissuto come una ricorrenza sostanzialmente malinconica e tediosa, ero affascinato dall’estetica natalizia di cui gli addobbi – con il loro rituale magico di festoni rossi, lucine policrome, cieli stellati di carta stagnola, materiali setosi, spine a intermittenza – rappresentavano ogni anno l’apoteosi domestica. Non c’era nessuna vera e propria coscienza identitaria da rivendicare nel preferire la stella al puntale in cima all’albero. Erano anni di beata inconsapevolezza in cui non sapevamo ancora cosa fosse esattamente il Kitsch e le palle di vetro soffiato, destinate a guarnire l’alberello verde artificiale, non avevano il timore di mostrarsi vulnerabili solo a guardarle. Una fragilità che non appartiene più a questo tempo. Tanto che bisognava maneggiarle con eroica cautela per salvaguardare di Natale in Natale la loro incolumità, e poi conservarle accuratamente nella carta di giornale per il resto dell’anno, assieme alla collezione di pastorelli con cui si allestiva un piccolo presepe artigianale nel salone di casa, poco lontano dall’albero. E la vera festa, ogni volta, era riscoprire quel tesoretto nascosto, dimenticato tra gli oggetti dismessi e polverosi di quella che Gozzano, anticipando di un secolo ogni prospettiva vintage, definisce “bellezza riposata dei solai”.
Alla fine, però, pur tenendomi cari tutti i miei ricordi, con buona pace di alberisti e presepisti, anche per quest’anno ho deciso di fare come l’asinello di Buridano: per le festività natalizie non opterò né per l’albero né per il presepe.
Francesco Vinci